PRETORIANI, STRUZZI O INTELLETTUALI? Per una riflessione sull’archeologia occidentale in Siria


Di Stefano Valentini e Guido Guarducci (condirettori CAMNES)
Palmira (Siria)
 
 
Le recenti dichiarazioni apparse sulla stampa nazionale ed internazionale (si veda a titolo esemplificativo: La guerra in Siria ora si combatte tra gli archeologi internazionali, di Francesca Paci, La Stampa, Opinioni del 19/01/2017*) hanno portato alla ribalta il dibattito interno alla comunità scientifica degli archeologi del Vicino Oriente Antico, sulla questione siriana ed in particolare sul come e con chi cooperare per proteggere il patrimonio archeologico di quel paese. Un dibattito che vede schierate, su fronti opposti, due fazioni che concepiscono il ruolo dell’archeologo in maniera molto diversa tra loro.

Da un lato gli archeologi che il 10 dicembre si sono incontrati a Damasco per discutere sulle sorti del patrimonio archeologico siriano su invito della Direzione Generale delle antichità di Damasco. Dall’altro gli archeologi che hanno interpretato questa partecipazione come un “deplorevole sostegno politico” al presidente siriano, Bashar al Assad. Da un lato la posizione di coloro, che in nome di un fine nobile -quello di difendere il patrimonio archeologico- sono fautori di una collaborazione tra la comunità scientifica internazionale e la Direzione Generale delle antichità di Damasco, comunque ancora ufficialmente riconosciuta dall’UNESCO. Questi archeologi, difendendo il proprio ruolo di studiosi estranei alle logiche politiche, accusano i loro colleghi di “politicizzazione dell’archeologia” e di “neo-colonialismo”. Dall’altro la posizione di coloro i quali (tra di essi molti firmatari della Ethics Charter for Near Eastern Archaeology and Assyriology, www.pennchc.org/page/node/129) replicano che “parlare di Siria nel 2017 non può che essere politica, perché il 75% degli alti responsabili della Direzione generale delle antichità siriane ha lasciato il paese, e perché, stando all'ONU, l'80% delle vittime dipende dai bombardamenti lealisti; e anche la distruzione dei beni archeologici, da Aleppo ad Homs, è frutto dei raid”. Per questi archeologi l'impegno per i civili e il rispetto della lotta del popolo siriano, vengono prima della questione delle antichità.

La questione però non sta tanto sul quando (“Qual è il momento giusto per occuparsi delle antichità archeologiche in una guerra come quella siriana?”) ma sul come possono gli archeologi riuscire nell’intento di preservare il patrimonio archeologico siriano.

Trascendendo per un momento la situazione contingente (ora e adesso), per tentare di esprimersi sulla questione in prospettiva futura, si dovrebbe forse, senza la pretesa di essere esaustivi, tentare un’analisi e capire cosa fosse l’archeologia orientale in Siria quando si è giunti al punto di non ritorno e cioè al 2011, all’inizio della guerra civile. L’archeologia del Vicino Oriente Antico non era certamente più l’archeologia coloniale degli inizi - quella delle grandi scoperte di Layard e Botta nel XIX secolo- e neanche quella d’inizio XX secolo, di Sir L. Woolley e T.E. Lawrence a Karkemish o del Barone Von Oppenheim a Tel Halaf. Era, oggettivamente e rispetto alle altre ‘archeologie’, una disciplina moderna, spesso di avanguardia, dal punto di vista puramente metodologico e scientifico, che però mostrava, oltre ad una spiccata resilienza, evidenti contraddizioni interne, soprattutto dal punto di vista etico (e questa recente vicenda non fa che confermarlo).

Non è scandaloso affermare che la stragrande maggioranza dei membri di questa comunità scientifica, fino al 2011, aveva manifestato un tipo di atteggiamento molto prudente (in accezione positiva) o piuttosto distaccato (in accezione più negativa) riguardo alla questione, che per comodità definiremo etico-politica. Per un fatto di opportunità pratica (continuare le proprie ricerche) o di narcisismo accademico, molti archeologi si professavano studiosi della storia e delle culture antiche; come tali apolitici e svincolati dal contesto contemporaneo della loro attività sul campo. In una sorta di alienazione rispetto al contesto sociale e politico che li circondava. Ed era la quotidianità di molte missioni archeologiche, salvo alcune eccezioni, di cui siamo stati tutti in qualche modo testimoni, a confermare che questo mondo scientifico-accademico manteneva ancora un modus operandi pieno di ambiguità, fatto di conservatorismo ed immobilità, e un approccio di derivazione coloniale frutto del proprio ‘orientalismo’ (nella formulazione di Edward Said nell’omonimo saggio del 1978). Una relazione asimmetrica con il paese ospitante che troviamo confermata da un paio di esempi su tutti: il divieto più o meno assoluto in tutte le missioni di parlare della situazione politica, meno che mai con i locali, e il rapporto con la comunità scientifica e gli operai, sempre locali, caratterizzato da una oggettiva sproporzione nella presenza sullo scavo tra archeologici occidentali (poche unità) ed i locali (diverse decine) e dall’assenza di tutele in termini di diritti del lavoro, sicurezza e di retribuzione economica per gli operai.

Ha perciò ragione chi tra gli archeologi ricorda ai suoi colleghi che erano tutti in Siria nel 1982, quando Hama fu rasa al suolo da Hafez al Assad padre. In quell’occasione nessun membro della comunità scientifica, una volta venuto a conoscenza dei fatti, prese una posizione critica nei confronti del regime. E possiamo aggiungere, che, salvo rarissime eccezioni, mai nessuno degli archeologi attivi in Siria, fino al 2011, ha condannato le limitazioni alla libertà e ai diritti civili e politici del governo siriano. Questo è un dato di fatto.

Poi siamo arrivati al 2011, quando le cose sono degenerate, in una escalation di violenza fino ai recenti fatti di Aleppo. Quella data sancisce il punto di non ritorno, che ha mutato radicalmente le prospettive reali dell’archeologia del Vicino Oriente in Siria, rendendo apparentemente impossibile quel compromesso in virtù del ‘male minore’, che aveva segnato i rapporti con il governo siriano. Su questo ha ragione chi afferma che ora “è impossibile far finta che non sia accaduto niente”. Agli archeologi del Vicino Oriente antico non si può più chiedere solo un parere sulla distruzione delle rovine di un sito, per quanto importante esso sia.

Indubbiamente una situazione oltremodo complicata nella quale però la comunità scientifica degli archeologi ‘orientali’, potrebbe cogliere l’occasione, una volta per tutte, per interrogarsi su sé stessa, a partire da quello che dovrebbe essere il ruolo dell’archeologo, in qualità di mediatore culturale, tra le culture del passato e del presente (come studioso) ma anche tra la cultura occidentale e quella dei paesi ospitanti (come intellettuale).

Scriveva Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere, (ed. Einaudi, 1975, vol. III, pp. 1550-1551): “Non-intellettuali non esistono. Non c'è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l'homo faber dall'homo sapiens. Ogni uomo, all'infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, partecipa di una concezione del mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere o a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare”.

Si può condividere o meno questa affermazione, ma per quanti la ritengono ancora valida ed attuale, al di là delle posizioni personali contingenti, la questione vera è questa.

Come intellettuali non possiamo rifiutarci di compiere un’analisi critica retrospettiva sul nostro operato in Siria fino al 2011, sui nostri errori e sulle nostre omissioni (siano state esse, motivate o meno, consapevoli o inconsapevoli). E questo vale per tutti. Soprattutto per coloro che in passato hanno fatto gli struzzi e adesso, in qualità di pretoriani, si sono auto proclamati unici difensori di un’etica umanitaria nelle questioni inerenti il patrimonio archeologico.

Come intellettuali abbiamo l’obbligo di rifiutare in toto (non a seconda delle circostanze e delle situazioni di comodo) tutti quei meccanismi culturali con cui la colonizzazione intellettuale si realizza. Tra di essi, primo fra tutti, la semplificazione dei fenomeni in atto, che finisce per limitare il percorso di analisi che deve essere oltre che critico, frutto della libertà intellettuale e del disinteresse personale. E che ha per effetto quello di creare una contrapposizione ideologica tra gruppi di tifosi, piuttosto che una fertile discussione a partire anche da posizioni diverse.

Questa rivoluzione culturale della disciplina non può concretizzarsi senza che in principio si superi, una volta per tutte, quella tendenza al riemergere di conflitti accademici mai sopiti, tra i diversi atenei e le loro diverse scuole, che ha caratterizzato il panorama italiano. È sufficiente leggere con franchezza tra le righe dei firmatari della carta del Penn Cultural Heritage Center i nomi degli archeologi italiani, quelli che ci sono e quelli che mancano.

E, sempre riferendosi prevalentemente alla situazione italiana, questa rivoluzione culturale della disciplina non può farsi senza risolvere la questione generazionale lasciando ai giovani ricercatori, i prossimi che torneranno (speriamo prima possibile) a scavare in Siria, la libertà di prendere la propria strada. Perché sebbene tanti di loro abbiano già un passato di archeologi in Siria, non avendo mai avuto un ruolo decisionale fino agli eventi del 2011, sono gli unici, in quanto figli dei tempi, ad avere una prospettiva in termini temporali e la necessaria lucidità per affrontare il futuro, senza il peso di un passato che per qualcuno dei più anziani potrebbe essere ormai troppo ingombrante.

A questi giovani, nell’assunzione piena delle proprie responsabilità, spetta il compito di rifondare l’archeologia del Vicino Oriente Antico -mettendo a frutto tutta l’esperienza del passato e l’insegnamento dei propri maestri- e di traghettare questa disciplina nell’attualità del nuovo scenario che ci sta di fronte.

Soprattutto, a loro spetta lo sforzo di elaborare nuove strategie e nuovi approcci che permettano agli archeologi di guardare non solo alla Siria, ma a tutto il Vicino Oriente con occhi nuovi. Perché adesso è toccato alla Siria, ma se vogliamo spingerci poco più in là e più avanti, non possiamo non guardare, senza strabismo opportunista, alla Turchia, all’Iraq, all’Iran, o allo Yemen; tutti paesi nei quali la libertà di opinione e i diritti umani sono fortemente limitati, ma nei quali gli archeologi, molti dei quali già attivi in Siria fino al 2011, continuano a lavorare. Anche in questi casi la questione etica deve essere affrontata subito per quello che è. Non può essere procrastinata in maniera ipocrita, semplicemente perché non siamo ancora arrivati ad una guerra civile come in Siria.

Davvero senza ipocrisia. Con la consapevolezza che tra il bianco degli struzzi e il nero dei pretoriani (gli accostamenti cromatici sono puramente casuali) c’è tutta una scala di grigi, che deve tener conto della storia e dell’attualità, della scienza e dell’etica, ma soprattutto del ruolo che gli archeologi vorranno avere nel futuro del Medio Oriente. Saranno disposti a negoziare la propria condizione di scienziati e accademici con quella di mediatori culturali, che mettono al servizio di tutti gli interlocutori la loro privilegiata posizione di osservatori partecipanti? Aprendo, come categoria ed in modo più collegiale possibile, un canale di comunicazione diretta con le istituzioni diplomatiche e di governo, in patria come nei paesi ospitanti. Per fare in modo che la discussione sul patrimonio archeologico, le sedi e gli eventi nei quali se ne parla, acquisiscano anche una valenza diplomatica; per contribuire, o almeno tentare di farlo, alla risoluzione pacifica delle questioni politiche, culturali, civili ed umanitarie con le quali dovremo abituarci a fare i conti.

A Firenze il 16-17 dicembre scorso, si è tenuta la prima Conferenza Programmatica degli Archeologi del Vicino Oriente (CPAVO: http://camnes.it/cpavo-conferenza-programmatica-degli-archeologi-del-vicino-oriente-iraq-e-siria-il-patrimonio-archeologico-tra-rischi-e-prospettive). In quella sede sono intervenuti molti degli archeologi della nuova generazione di cui si diceva sopra, che timidamente hanno iniziato questa rivoluzione culturale della disciplina, anche con il supporto dei più anziani.

Per dare seguito a questo inizio, rilanciamo l’idea di CPAVO come contenitore per un dibattito vero, aperto a tutti i componenti della comunità scientifica degli archeologi del Vicino Oriente Antico, anche per superare la prassi delle schermaglie/dichiarazioni a mezzo stampa tra gli accademici più in vista. Per arrivare ad un manifesto programmatico, fatto di progetti e strategie di azione condivise, che sia un passo avanti rispetto alle tante carte d’intenti e agli incontri-vetrina, zeppi di luoghi comuni e frasi di circostanza.

Con l’auspicio che questo dibattito tra gli archeologi possa risvegliare in loro una nuova consapevolezza intellettuale, al servizio dei cittadini nel dibattito pubblico, per fronteggiare la trivialità culturale dilagante, ad esempio intorno alla questione, quanto mai attuale, delle migrazioni; in Italia come negli altri paesi dell’Occidente, che non hanno ancora fatto tutti i conti con il proprio passato coloniale.


* Tutti i virgolettati nel testo sono citazioni da questo articolo
 

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