Dall’estate del 2014, l’IS ha messo in atto un’inusuale, quanto brutale, pratica di distruzione deliberata di siti archeologici e musei, sia in Siria che in Iraq, in territori che controlla direttamente.
In ordine di tempo, solo citando i casi più eclatanti, abbiamo assistito alla distruzione dell’antica città di Ninive (https://it.wikipedia.org/wiki/Ninive) e poi del Museo di Mossul; sempre in Iraq sono stati colpiti i siti di Hatra (https://it.wikipedia.org/wiki/Hatra) e Nimrud (https://it.wikipedia.org/wiki/Nimrud). Infine tutti ci ricordiamo cosa è successo a Palmira (https://it.wikipedia.org/wiki/Palmira) dove, oltre alle distruzioni praticate sulla città antica, è stato ucciso anche l’archeologo Khaled al-Asaad.
Queste distruzioni -che tutti hanno giustamente considerato come crimini contro l’umanità- possono, senza ombra di dubbio, essere considerate come una forma di violenza che ha lo scopo di annientare il senso di appartenenza, e il senso collettivo della memoria tra le comunità locali, cui questo patrimonio appartiene. Che sottende quella che l’archeologo Ömür Harmanşah** ha definito come la volontà dell’IS di fare terra bruciata nei territori conquistati, partendo dalla distruzione del patrimonio culturale, e operando contestualmente la deportazione delle popolazioni indigene e la distruzione degli insediamenti moderni attigui ai siti archeologici e dei terreni agricoli circostanti, spesso unica fonte di sussistenza per queste comunità. Un’operazione militare che mira essenzialmente a distruggere interi paesaggi di sostentamento negando, di fatto, il diritto umano fondamentale alla vita. Una strategia post-bellica che ricorda molto da vicino quella inaugurata dagli Assiri durante la loro espansione in Mesopotamia nel I millennio a.C.
Ma è senza dubbio l’aspetto mediatico quello più innovativo -come dimostrato dall’utilizzo delle tecnologie di visualizzazione e comunicazione più avanzate- e per questo meno contrastabile con le strategie consolidate di lotta al terrorismo. Un’aspetto che i media non hanno sufficientemente evidenziato.
Che impatto hanno avuto queste distruzioni sui Global Media?
Lo Stato Islamico coordina e coreografa queste distruzioni come spettacoli mediatici. E questi spettacoli si svolgono come rievocazioni o rappresentazioni storiche (sarà sufficiente notare l’abbigliamento, le acconciature e la gestualità dei protagonisti) che vengono continuamente e con attenzione diffusi dall’apparato di propaganda dell’IS, che utilizza queste immagini anche per costruire un’immagine di sé da offrire al mondo intero. Così sono state mostrate al mondo statue prese a mazzate e templi saltare in aria, non solo per accrescere il terrore delle popolazioni dell’Occidente, ma per trasmettere un’ideologia radicale di fanatismo religioso, al fine di reclutare nuovi militanti proprio fuori dal territorio controllato dall’IS.
In definitiva le domande che dobbiamo porci sono: perché la propaganda dell’IS produce questi video? A chi sono rivolti? Come sono recepiti dal pubblico?
La risposta della comunità scientifica degli archeologi, di fronte a queste performance multimediali, non è andata oltre le inefficaci parole di retorica e le stereotipate affermazioni di sgomento. E nel dibattito sui mezzi d’informazione, questa violenza è stata frettolosamente categorizzata come l’esempio tangibile di un’iconoclastia “medievale” permeata di un’arroganza anti-occidentale, mentre “inconsapevolmente ed inconsciamente” la veicolazione di queste immagini (sia attraverso la TV, che la condivisione sui social media) non ha fatto altro che produrre una diffusione e una mediazione di questi contenuti, finendo per conferire loro una obbiettività, alla stregua di altri tipi di notizie.
Così questi video, da “semplici” atti d’iconoclastia, si sono trasformati in artefatti con un forte carattere performativo, che trovano la loro collocazione vera in una dimensione ideologica. Allora queste distruzioni da immaginarie rievocazioni della distruzione degli idoli della Ka’ba sono divenute delle “ataviche” performance, che rapiscono deliberatamente un’eredità medievale e se ne appropriano per stabilire una sorta di genealogia religiosa, tra presente e passato, funzionale alla macchina della propaganda nella costruzione dell’immaginario collettivo di un’identità post-moderna dell’IS.
Pertanto, in maniera più efficace, Harmanşah preferisce collocare queste performance nell’ambito di quella che Bruno Latour ha definito “iconoclash”, la guerra contemporanea d’immagini violente che si perpetua nella sfera pubblica globale, in maniera sia distruttiva che costruttiva. Una guerra combattuta nell’iper-modernità capitalistica mediante le tecnologie più avanzate e di vasto consumo.
Di conseguenza i video dell’IS funzionano in maniera molto simile a un reality show che mobilita in modo efficace il consumismo dei mezzi di comunicazione visiva. Che si tratti di violenze rivolte contro il patrimonio, o peggio ancora di atti orrendi contro le persone (inutile riferirsi ai video delle decapitazioni) queste performance hanno un unico vero scopo: quello di destare interesse per lo spettacolo. Un obiettivo che è direttamente proporzionale al terrore diffuso nel pubblico.
Di questo spettacolo fanno parte a pieno titolo anche gli attentati, come purtroppo abbiamo sperimentato nei casi di Parigi e Bruxelles. In questi casi il successo mediatico, non essendoci video prodotti e diffusi dall’IS, viene alimentato indirettamente, ma esponenzialmente, dall’apparato d’informazione, sia pubblico (TV ed internet), sia privato (social media). In questo l’IS può contare “su di noi” e far tesoro dell’esperienza degli antesignani di al-Qaeda: dall’evento catartico e fondante dell’attentato alle Torri Gemelle del 2001, ai video delle decapitazioni degli occidentali.
Per questo abbiamo il dovere di considerare in modo più responsabile e critico la possibilità che la veicolazione di questa violenza sui nostri blog o profili di Facebook, Youtube e Twitter sia la vera ragion d’essere della propaganda dell’IS.
Allora non abbiamo scelta, dobbiamo trovare un modo diverso e migliore per affrontare questa macchina della propaganda. Dobbiamo andare oltre i vecchi schemi e sentieri di interpretazione.
In questo senso le vignette di Charlie Hebdo, come quelle di Mehdi “Amo” Rasooli -del quale ho ripreso alcuni esempi nei miei post in questo blog-sono una lezione importante non solo per i media occidentali, ma anche per tutti noi, che ci pensiamo impotenti di fronte al fenomeno IS: la lettura e soprattutto la veicolazione acritica delle produzioni visive dell’IS ha come risultato paradossale quello di aiutarne la macchina della propaganda.
Tutto si è tremendamente complicato rispetto al passato. Chi crede di poter affrontare il terrorismo dell’IS paragonandolo ai “terrorismi” già vinti o combattuti sbaglia di grosso.
Di fronte ai fatti più recenti accaduti in Europa, la ricerca di contromisure rischia di apparire come un compito impossibile, come quello di Sisifo, costretto a rotolare un immenso masso su per una collina, solo per guardarlo rotolare giù di nuovo, ripetendo questa operazione per l’eternità.
Ma c’è un modo per iniziare: dovremo compiere un’azione di obiezione di coscienza, per certi versi di autocensura. Come ci rifiutiamo di postare sulle nostre pagine Facebook, Youtube o Twitter immagini di atti di pedofila o pornografia, così dovremo astenerci dal pubblicare video di violenza contro i corpi umani (esecuzioni, atti di terrorismo) e persino contro il patrimonio culturale.
Già mi vedo le vostre facce ed immagino le solite accuse di velleità, ma le trasformazioni fondamentali, in termini culturali e morali, che s’impongono alla nostra società, non potranno mai verificarsi senza che prima si siano realizzate negli gli individui che la compongono.
Mettiamoci tutti il nostro ciottolino, e il masso di Sisifo si fermerà.
Riferimenti:
Vignetta di Mehdi “Amo” Rasooli, pubblicata con il permesso dell’autore da Ömür Harmanşah in “ISIS, Heritage, and the Spectacles of Destruction in the Global Media”, Near Eastern Archaeology, Vol. 78, No. 3, September 2015, pp. 170-177.
** Si veda il suo articolo: ISIS, Heritage, and the Spectacles of Destruction in the Global Media, pubblicato sulla rivista Near Eastern Archaeology, Vol. 78, No. 3, September 2015, pp. 170-177.